Dal Giappone a Istanbul, come un salmone risale la corrente |
O forse, invece, rende noialtri simili ai salmoni, sempre in cerca di un da dove veniamo. Il mio istinto mi spinge verso direzioni non sempre chiare al mio intelletto. Capire, per me, equivale a sentire, profondamente, qualcosa che arriva da lontano, percepire una sorta di armonia originaria che sta a filo delle cose. Pezzi di un puzzle in disordine. Che l'istinto mi fa ricomporre. Come diceva Blaise Pascal, il cuore ha delle ragioni che la ragione non può comprendere. Il mio istinto, tre giorni prima del terremoto in Giappone, ha cominciato a tormentarmi. Scappa, mi diceva, scappa, devi andartene.Non puoi stare qui, devi andare via, via di qui.Ho sfinito tutti, in quei giorni poco prima del mio compleanno. Soprattutto me stessa. Non riuscivo neppure a dormire! Volevo solo, solo fuggire. Fuggire da cosa? Nemmeno lo sapevo! Di certo, nessuno s'aspettava un terremoto di quella portata. Fossi stata un gatto o un cane, una formica o un corvaccio, mi sarei andata a rintanare in collina, nell'antro di un bosco, oppure volata via lontano. Ma le ali, non le avevo. E soprattutto, avevo firmato un contratto con il Ministero dell'Istruzione giapponese. Non credo che avrebbero prestato ascolto alle istanze del mio istinto. Non volevano farmi partire nemmeno dopo il terremoto, figuriamoci prima!
Tanto vale ammetterlo.
La prima volta in cui ho messo piede a Istanbul, non mi è piaciuta. Mi sono trovata spaesata e respinta. Direi che per questo l'ho quasi odiata. Non ero pronta per la sua vitalità estrema e complessa. Un'animata convivenza di anime diverse sotto lo stesso cielo di sole e di pioggia. Città piovosa. Città di cultura e di consumi. Di profumi e fetori, di splendori e miseria schietta. La storia l'ha attraversata come una lama calda, e milioni di navi hanno attraversato il Bosforo, insieme a milioni di pesci, mangiati da milioni di gabbiani. Si mangia benissimo a Istanbul. La cucina è una fusion tra Oriente e Occidente, e tutto è mescolato con qualcos'altro, è il prodotto di un incontro-passaggio-scontro. Il contrario del Giappone, dove tutto è Giapponese, Giappone sommato a Giappone.
Istanbul non assomiglia davvero a nessun'altra città ma ne ricorda molte, a tratti Parigi, a tratti Lisbona e Marrakesh, e chissà quante altre ancora. Beh, Genova, Venezia...
E questo mi riporta dritta al mio istinto. Durante la mia prima visita a Istanbul, mentre cercavo di evitare le zone a più alta concentrazione turistica, sono arrivata a Galata. Tra i suoi vicoli color mattone e le sue case dalle ampie finestre, mi sono ritrovata in una dimensione inspiegabilmente familiare. Salendo tra quelle stradine mi sono sentita bene, al sicuro. Ho sentito che essere lì aveva un senso, che era armonico, permeabile e accogliente. Mi sono seduta sul ciglio della strada, e ho tirato un bel sospiro di soddisfazione: "Che bello!".
Ora a Istanbul ci vivo, e mi nutro della sua vitalità. E' un luogo dove si può crescere, imparare molto su di sé e sugli altri. Dove si capisce all'istante l'importanza di studiare e capire la Storia, per sapere che cosa, chi e come siamo. Per nuotare alla fonte come i salmoni.
Ieri ho imparato questo: che il quartiere di Pera, oggi noto come Galata, fu edificato dai Genovesi, e così la sua torre, eretta nella seconda metà del 1300. Gli Italo-levantini erano la comunità di italiani che viveva a Smirne e a Istanbul. In epoca rinascimentale costituivano quasi un terzo della popolazione della capitale. Erano italiani in tutto e per tutto: per lingua, cultura e religione. Giunti nel Mediterraneo orientale fin dai tempi delle Crociate, lavoravano con il Sultano nel serraglio del Topkapi, costruivano palazzi sul Bosforo e tenevano le vie commerciali marittime tra Bisanzio e le repubbliche marinare. C'erano pisani, amalfitani, fiorentini, genovesi e veneziani, ognuno nel suo bel quartiere: con alterne fortune, vi rimasero, fino alla caduta delle repubbliche marinare. Furono in gran parte reimpatriati dopo le guerre italo-turche d'inizio novecento, e anche in seguito all'occupazione, durante il ventennio fascista, delle isolette greche del Dodecaneso, operazione non gradita alla Turchia.
La cultura italo-levantina è oggi tenuta in vita dalla scuola italiana di Galata, e si caratterizza per uno spiccato interesse per la cucina, il cinema, le stoffe e per l'antiquariato. Un tocco speciale e affascinante! Il mio istinto, ancora una volta, palpitante, mi ha portata qui, proprio dove dovevo essere. Le cœur a ses raisons, que la raison ne connaît point.
Ieri ho imparato questo: che il quartiere di Pera, oggi noto come Galata, fu edificato dai Genovesi, e così la sua torre, eretta nella seconda metà del 1300. Gli Italo-levantini erano la comunità di italiani che viveva a Smirne e a Istanbul. In epoca rinascimentale costituivano quasi un terzo della popolazione della capitale. Erano italiani in tutto e per tutto: per lingua, cultura e religione. Giunti nel Mediterraneo orientale fin dai tempi delle Crociate, lavoravano con il Sultano nel serraglio del Topkapi, costruivano palazzi sul Bosforo e tenevano le vie commerciali marittime tra Bisanzio e le repubbliche marinare. C'erano pisani, amalfitani, fiorentini, genovesi e veneziani, ognuno nel suo bel quartiere: con alterne fortune, vi rimasero, fino alla caduta delle repubbliche marinare. Furono in gran parte reimpatriati dopo le guerre italo-turche d'inizio novecento, e anche in seguito all'occupazione, durante il ventennio fascista, delle isolette greche del Dodecaneso, operazione non gradita alla Turchia.
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